mercoledì 23 aprile 2014

L'emigrante

Una sera di maggio - Musa Franco

Correvano i "poveri anni cinquanta,"
nel mezzo dei verdi anni miei,
coi ciliegi in fiore, a primavera,
l'aria impregnata d'intenso odore
la partenza era imminente,
non più una chimera.
L'addio non fu per me uno strazio
per i genitori sì una fitta al cuore.
Aperta la gabbia, come un'uccellino
incontro al mondo, libero volai,
oltre le Alpi in treno andai.
Pupille incantate
su grandi montagne
dalle cime bianco innevate,
restavano fissate.
Laghi, valli, buie gallerie,
attonito ammiravo,
città, stazioni e lunghe ferrovie.
A quei visi alteri, freddi e tristi,
di uno strano rosa-pallido colorati,
a quell'idioma secco e incomprensibile,
lungo e faticoso fu l'adattamento.
L'entusiasmo fu presto spento.
Assalito da struggente nostalgia
poco dopo sarei venuto via.
I giorni, i mesi e gli anni
monotoni, duri, volavano
come piume al vento;
ad ogni tramonto, come un tarlo,
quello strano tormento
mi rodeva d'entro.
Come Ulisse, alla sua Itaca,
a casa anelavo tornare.
A Natale, quella malinconia
in pura gioia si mutava:
la Romagna rivedere,
il paese, i dolci colli,
la gente nella SITA,
era un rinascere alla vita.
Quei volti noti, olivastri e bruniti
li avrei tutti baciati.
Riudire, poi, il nostro dialetto
per il mio spirito
era un godimento perfetto.

Stefano Giannini

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